Il testo riportato di seguito è la trascrizione della registrazione dell’intervento di Vanni Pasca alla tavola rotonda conclusiva di Italia: Design, Politica e Democrazia nel XX secolo, IV convegno AIS/Design, tenutosi a Torino il 28-29 giugno 2019.
La registrazione è stata effettuata da Luciana Gunetti e Chiara Lecce, la trascrizione da Dario Scodeller, che ha cercato di mantenersi fedele al parlato, sistemandone la sintassi. In tre punti sono state eliminate delle brevi frasi non comprensibili, senza che il testo perdesse di senso generale.
La trascrizione letterale del suo intervento era stata inviata a Vanni Pasca a giugno e poi a settembre del 2020, per essere inclusa negli atti, ma impegnato in una serie di lezioni di design online, Vanni non era riuscito infine a sistemarla.
Nel testo Vanni Pasca fa riferimento a interventi che sono consultabili negli atti del convegno.
Riteniamo che questo suo intervento esprima una chiara posizione in merito al rapporto tra storia e contemporaneità e che meriti perciò di rimanere “agli atti” della nostra Associazione.
Dario Scodeller,
socio AIS/Design e co-curatore del IV convegno AIS/Design
Vanni Pasca, Intervento al IV convegno AIS/design, Torino, 29 giugno 2019
Implicite o esplicite, nell’intervento di Paolo Deganello ci sono alcune affermazioni che, non a caso, abbiamo sentito anche ieri in qualche intervento, che mi spingono a fare due ordini di considerazioni. La prima è tranchant: di ciò che ha detto Paolo quello che, come storico, mi interessa, è l’affermazione che “gli studenti non si occupano di storia”. Mi interessa, come docente di storia del design, perché è un problema epocale. Non sono un feticista della storia: ritengo che per i ragazzi imparare la storia significhi evitare di leggere la situazione in cui si trovano oggi semplicemente con gli occhi della contemporaneità, estranei a qualunque costruzione di senso col quale ragionare su di essa.
La provocazione di Deganello che mi interessa come storico è questa. Un progettista mi chiede di fare lo storico e a me quello che interessa nella vita, a parte altre questioni, è fare lo storico. Qui siamo in un convegno di storici e la parte del suo intervento che mi è più vicina, che chiama tutti noi a riflettere, è proprio questa: è possibile essere estranei a ciò che ci ha preceduti?
Poi c’è la parte che mi è più lontana: ed è quella relativa al cambiamento epocale che stiamo vivendo, che secondo molti determinerebbe una situazione storica radicalmente diversa dalla precedente, e che mette in discussione i parametri stessi del concetto di progettare.
Non a caso Paolo è un progettista. Per cui la figura del progettista, nella sua veste salvifica, che i radical hanno sempre sotterraneamente coltivato, oggi si trasferisce a una sorta di “presa di responsabilità moralistica dei guai dell’universo”, per cui, se l’universo va male – e fino qua siamo tutti d’accordo – il ruolo dei progettisti è farlo andare meglio. Come? Non più facendo i progettisti e progettando, ma trasformandosi in educatori sociali, organizzatori di attività comunitarie, cioè in una sorta di sostegno alla società. È qui c’è la costola di Ezio Manzini e la sua idea che è stata analizzata in tutte le cose che abbiamo detto ieri.
Cerco un po’ di riflettere su questo e introduco un altro tipo di ragionamento. Il convegno si è occupato di politica e design assumendo il termine design nella sua accezione prevalente di politica culturale. Ma a me interessa un’altra accezione di politica: le modalità e l’organizzazione dell’esercizio del potere che pongono il problema del rapporto tra design e potere. Che non è il rapporto tra il design e le culture politiche e soprattutto le culture politiche socialdemocratiche o socialiste come si è visto nel convegno, ma è l’esercizio del potere in senso proprio.
E su questo mi riallaccio anche al discorso precedente: se non vogliamo occuparci solo dell’Italia a me interessa ragionare su come nell’Ottocento un signore che si chiamava Henry Cole, amico e protégé del principe Alberto, diventa sottosegretario per la Great exhibition del 1851, e lo fa tanto bene che influenza il design del Novecento, mentre il buon William Morris lavora con i socialisti fabiani; per cui, fin dall’Ottocento, abbiamo già una spaccatura netta tra chi lavora col potere costituito (e non ci vede niente di male), per promuovere la qualità della produzione industriale, alimentando il dibattito nel parlamento inglese negli anni trenta (perché siamo così tecnicamente bravi e vendiamo meno dei francesi?) da cui nasce tutto il problema delle scuole, delle mostre, della grande esposizione ecc. Già nell’Ottocento si delinea perciò un doppio filone: uno di affiancamento al potere e l’altro di radicale opposizione a quello che il potere sta sostenendo – da cui il sostegno all’artigianato e così via.
E se veniamo all’Italia, a me ha sempre colpito come a fine anni cinquanta i promotori del Compasso d’oro nel libretto del concorso fanno un appello non firmato in cui dicono più o meno: signori industriali sbagliate a servirvi così poco dei designer, perché siamo nel Mercato comune europeo, e nel MEC abbiamo bisogno di una produzione industriale competitiva. Quello che voglio dire è che abbiamo un tema che a mio avviso va sviluppato e che potrebbe essere forse il tema del prossimo convegno, che riguarda ancora la politica, ma è il tema del rapporto tra il design e il potere.
Quindi quello che ho sentito da Paolo e da altri mi fa venire in mente una cosa che ho scritto recentemente per “Lotus”, dove sono stati pubblicati alcuni dibattiti portati avanti negli ultimi anni nella rivista. Uno di questi libretti ripropone un dibattito tra Umberto Eco e Vittorio Gregotti sulla fine del design. Eco, sfottendolo un po’, dice a Gregotti quanto gli piaceva una sua radio che assomigliava a Mazinga, facendo scivolare all’interno del suo discorso un’apertura postmoderna. Ecco, mi è toccato scrivere la postfazione a questo libretto. Molto delicata non solo per rispetto a queste due personalità, ma anche e soprattutto perché il dibattito riguardava la morte del design. Ora: è accettabile la morte del design? Da che cosa deriva e come si sviluppa?
Negli anni cinquanta Argan fu uno dei primi a parlare di morte dell’arte hegeliana; morte da cui conseguiva un sì al design. Nei decenni successivi si è parlato di morte delle avanguardie e poi di morte del design, nell’arco di circa trent’anni si è introdotto il concetto che il design fosse finito. Ora, per decretare la morte di qualcosa bisogna definirla e se dobbiamo dire quale design sia morto diremo che è morto il design che è stato interpretato come una forma di progettazione specifica del XX secolo. Praticamente annullando quel dibattito di cui parlavo in precedenza quando accennavo all’Ottocento inglese. Cioè si parla del design che è nato con Ford e che alla fine del secolo si è praticamente estinto. Se accettiamo oggi questo fatto ne viene fuori una teoria della morte del design e dell’apertura a una nuova fase storica in cui il problema non è più il progetto, ma quello di una sorta di assistenza socio-culturale. Il problema non è più la lotta al capitalismo con tutti gli addentellati, ma è il social housing, con tutti gli aspetti anche positivi che lo caratterizzano, ma come sostituzione teorica di un asse di sviluppo teorico-progettuale.
Questa teoria è molto diffusa. E quando ieri Daniela Piscitelli ci diceva che dobbiamo dare risposta ai ragazzi che ci chiedono che cosa dobbiamo fare per salvare il pianeta, io invece insegnerei loro a fare ricerca, a capire che cosa è stato il passato, anche se questo chiama in causa poi che cosa t’insegno, ma di fatto il problema che oggi ci troviamo di fronte è: esiste ancora una storia del design che riguarda il progetto in quanto nato all’inizio dell’Ottocento o alla fine del Settecento, in quanto nato con la società industriale, in quanto nato col governo inglese che sostiene la necessità della qualità dei prodotti, e che quindi finanzia le scuole di design, in quanto nato dal dibattito tra chi cerca di dare qualità al prodotto industriale e chi vi si contrappone, come Ruskin, Morris ecc., in quella chiave socialista fabiana? Esiste ancora questo design, che poi è andato avanti nel Novecento e che oggi va avanti rispetto a una situazione che non è “azzerata” perché il mondo procede verso la catastrofe, ma che pone il problema di cosa vuol dire oggi progettare, non facendo finta di progettare perché si rammendano le calze, ma perché si sviluppa e si porta avanti un ragionamento e un dibattito su cosa è oggi il progetto. Il progetto, non l’assistenza sociale.
Ho presentato tre dibattiti con Manzini a Milano trovandomi in disaccordo totale. In questo senso il rischio sul piano politico (e qui dico una cosa totalmente personale), è la decrescita felice di Latouche. Io, come storico, posso spiegare la decrescita felice, ma spero che il mondo contemporaneo non si rassegni alla decrescita felice.
Grazie.